Urbanistica intersezionale e spazio coloniale. La Palestina come lente critica del mondo.
Un testo di Ilaria Iacconi Iambrenghi, sociologa urbana, teorica della definizione di Urbanistica Intersezionale e co-fondatrice di Urbanist* e Architett* per la Palestina.
In Palestina, lo spazio è un campo di battaglia.
Ogni muro, checkpoint, strada o area “di sicurezza” racconta una storia di potere e di controllo, scritta sul corpo stesso del territorio e di chi lo abita. L’architettura, in questo contesto, non è neutra: è uno strumento di dominio, una forma di violenza che agisce nel quotidiano, nel paesaggio, nella vita stessa.
Parlare di urbanistica intersezionale significa partire da qui — dal riconoscimento che le oppressioni non sono mai isolate. Il colonialismo è patriarcale, il patriarcato è capitalista, il capitalismo è ecocida.
Queste logiche non si sommano, si intrecciano. Producono città diseguali, corpi esposti, ecologie devastate.
L’urbanistica intersezionale, concetto elaborato da Ilaria Iacconi Iambrenghi, propone di leggere la città come un dispositivo politico complesso in cui le gerarchie di genere, razza, classe, salute e abilità si riflettono nella forma costruita. È una lente che svela come la violenza coloniale, quella patriarcale e quella economica operino insieme, attraverso la gestione dello spazio.
In Palestina, questo intreccio si manifesta con evidenza: il controllo territoriale coincide con il controllo dei corpi; la sorveglianza e la frammentazione dello spazio diventano strumenti per regolare la vita, il movimento, l’esistenza stessa.
Ma la Palestina non è un’eccezione: è il paradigma di un mondo in cui le città si costruiscono sempre più per escludere, contenere, sorvegliare.
Ripensare l’urbanistica da una prospettiva intersezionale significa, allora, decolonizzare il progetto: rifiutare l’idea di spazio come proprietà o infrastruttura neutra, e riconoscerlo come relazione viva tra corpi, memorie, ecologie e poteri.
Significa progettare contro l’invisibilità, contro la normalizzazione della violenza, contro la retorica della ricostruzione che cancella i segni del conflitto.
Un’urbanistica intersezionale non cerca di “aggiustare” la città esistente, ma di smontarne le fondamenta gerarchiche. È un gesto politico di cura e di disobbedienza, che riporta la giustizia al centro dell’atto di progettare.
E in questo, la Palestina non è solo un luogo di dolore: è anche un laboratorio di resistenza, di architetture precarie e di gesti quotidiani che reinventano lo spazio come forma di sopravvivenza e solidarietà.
Pensare l’urbanistica intersezionale oggi significa guardare al mondo a partire da quella ferita: comprendere che la liberazione dello spazio è inseparabile dalla liberazione dei corpi, e che non c’è giustizia climatica, di genere o sociale che possa realizzarsi senza una giustizia spaziale.