Pratiche di resistenza e appropriazione dello spazio: i tetti giardino nel campo palestinesedi Burj el Barajneh.
Un testo di Lorenzo Cannas, architetto e urbanista. Il testo è tratto dalla sua tesi di laurea Diari palestinesi: pratiche di resistenza sui tetti di Burj el Barajneh.
Il Libano, con una superficie di poco più di 10.000 km², ospita il più alto numero di rifugiati pro capite al mondo (UNHCR, 2023; UNRWA, 2022). Accanto a 1,5 milioni di siriani, il Libano ospita 12 campi rifugiati palestinesi ufficiali e 16 campi rifugiati palestinesi non ufficiali (UNRWA, 2022). Questi territori sono spazi estremi, soggetti a logiche di controllo e marginalizzazione, ma anche luoghi di resistenza e costruzione identitaria (Boano, 2021; Abourahme, 2020; Maqusi, 2018; Turner, 2016; Sanyal, 2012). La ricerca sul campo di Burj el Barajneh, a Beirut, esplora come pratiche quotidiane e configurazioni spaziali generino nuove forme di abitare e di agency politica, restituendo al campo un valore urbano e relazionale.
L’analisi si fonda sul superamento della dicotomia città–campo, verso l’osservazione di pratiche interne al campo, portatrici di insiemi di diritti quali «la libertà, l’individualizzazione e la socializzazione, l’abitare e il vivere» (Lefebvre, 1996: 173; Harvey, 2012). Nei campi palestinesi, la resistenza assume forme spaziali e quotidiane, emergendo attraverso pratiche che sfidano la precarietà e la segregazione (Foucault, 1978; Hughes, 2020). Lo spazio assume così una dimensione politica, in cui abitare equivale a resistere.
Burj el Barajneh, nato nel 1948 dopo la Nakba, ha subito un processo di solidificazione e stratificazione, passando dalle tende del 1948 agli edifici in cemento degli anni 60 con l’arrivo dell’OLP, fino ad arrivare agli edifici multipiano durante la guerra civile libanese. La verticalizzazione del campo ha prodotto nuovi spazi di socialità e resistenza. Attività come il sahra (in arabo ةرهس(, le pratiche femminili di sobheyye (in arabo ةيحبص(, e altre ricorrenze si svolgono sui tetti, sostituendo le strade strette e sfidando la rigidità del campo. Accettare l’esistenza radicale di questi spazi e rivendicarne il diritto a esistere configura il campo come luogo di relazioni, memoria intergenerazionale e resistenza, dove la quotidianità diventa politica e urbana. I tetti, in particolare, si trasformano in dispositivi spaziali capaci di sostenere la socialità e rafforzare l’identità collettiva.
Questi spazi sospesi tra pubblico e privato diventano infrastrutture affettive e politiche, sedi di relazioni, memoria e resistenza (Amin & Thrift, 2017; Pasqui, 2008). La loro appropriazione quotidiana traduce il sumud — la perseveranza palestinese — in una pratica spaziale che riafferma il diritto all’esistenza e alla continuità culturale. Tra le esperienze più emblematiche vi è quella dei tetti giardino, dove coltivare piante e ortaggi diventa un atto di resistenza e di ricostruzione identitaria (Maqusi, 2018; Boano, 2021).
Tale pratica richiama il sistema agricolo collettivo mashaaʿ(in arabo عاشم(, fondato sulla condivisione della terra e sulla rotazione delle parcelle tra famiglie, simbolo di equilibrio e solidarietà (Al-Qutub, 1989). La Nakba e la legislazione israeliana successiva formalizzarono la confisca delle terre e dei beni dei palestinesi in diaspora, imponendo un sistema di colonizzazione e di riorganizzazione territoriale che cancellava le pratiche tradizionali e i legami identitari (Pappé, 2007; Weizman, 2007).
I tetti giardino rappresentano dunque forme di agro-resistenza, strumenti per perseguire autodeterminazione e connessione intergenerazionale. Le associazioni locali ne promuovono l’uso come pratica comunitaria e pedagogica, capace di riprodurre valori cooperativi come al-Ouna (in arabo ضعَ ُد -” aiutarsi a vicenda”). Attraverso queste azioni, il campo si configura come laboratorio
urbano, in cui spazio, tempo e identità si intrecciano in un continuum che sfida la condizione di “permanent temporariness” (Petti & Hilal, 2018; Ramadan, 2009).
Nel campo, il passato e il presente convivono secondo una temporalità circolare: i palestinesi vivono in una forma diversa di tempo e spazio, vicina alla teoria bergsoniana della durata. Qui non c'è distinzione tra passato e presente: le vite e i corpi dei palestinesi continuano a muoversi in sincronia con il presente, verso una ridefinizione del futuro. L’espansione verticale non è solo una risposta alla densità, ma un modo di affermare la permanenza e la possibilità di vita.
I tetti giardino si configurano come spazi urbani alternativi, in cui la quotidianità produce resistenza. Essi custodiscono un sapere collettivo e affettivo che unisce memoria rurale, creatività e solidarietà. In un contesto di esclusione legale e precarietà, rappresentano il diritto a “fare città” al di fuori delle logiche istituzionali, riaffermando una cittadinanza non riconosciuta ma vissuta.
In conclusione, i tetti e i tetti giardino di Burj el Barajneh mostrano come lo spazio è veicolo di identità, appartenenza e resistenza politica. Attraverso la cura, la socialità e la produzione materiale, i rifugiati palestinesi elaborano le condizioni di marginalità in pratiche di vita urbana. I giardini sui tetti sono variazioni di un paradigma tradizionale palestinese: forme collaborative di adattamento e di appartenenza a una nazione, forme di legittimità e identità territorializzata, intreccio di corpi, affetti, tradizioni, che consentono la vita.
Bibiliografia
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